Un alito di vento inaspettato le liberò il viso dalla nuvola di fumo che aveva lentamente lasciato uscire dalla bocca.
La seguì osservandola mentre perdeva forma fino a dissolversi nell’aria, fece un respiro profondo spostando di poco il cappuccio del giacchetto che le era sceso troppo avanti sul viso. Era gracile Sara, esile come certi pensieri che si spengono poco dopo essere iniziati.
Aveva 23 anni, nata nel 2007, in una tiepida giornata di primavera. Un carattere schivo, adatto a chi vuole coltivare le proprie passioni, poco adatto a trovare un ragazzo. Aveva avuto qualche storia, ma non era mai riuscita a trovare quel desiderio così forte da arrivare a più di qualche incontro.
Eppure, dentro pulsava un cuore affamato di tutto, curioso, insaziabile di vita.Alcune persone possono appartenere solo a se stesse: anche se avessero provato costantemente a condividersi con qualcuno, qualcosa sarebbe sempre andato storto.
– Ehi Sara, è ora, tocca a te, – la voce di Luca la salvò dall’accendersi un’altra sigaretta.
Era nervosa, accadeva ogni volta che doveva salire sul palco, sentiva il peso di tutto ciò che sarebbe accaduto, delle aspettative, e una pressione al petto come se due braccia lo stessero comprimendo.
L’idea di entrare nel locale e incontrare tutta quella gente ammassata che voleva solo lei e la sua musica, persone che si sarebbero avvicinate per esprimere tutto il loro entusiasmo, e alle quali avrebbe soltanto voluto dire: “Guarda che non suono per te! Stammi lontano”.
Lontano. Era proprio la distanza la sua più grande difficoltà, ogni volta che si trovava in luoghi affollati le mani iniziavano a tremare, i battiti del cuore acceleravano rapidamente.
Erano passati dieci anni dal periodo più buio della sua vita, eppure i luoghi affollati la riportavano esattamente al centro di quei giorni, quei maledetti giorni durante i quali un virus impercettibile s’insinuò nel mondo mettendolo in ginocchio per un tempo così lungo che sembrava non finire mai.
Tutto si arrestò improvvisamente, divenne una lunga infinita notte fatta di numeri, di dubbi, di paure, di fragilità che tutti cercavano di gridare, ma non c’erano orecchie così forti da poterle sentire.
Entrò nel camerino, si guardò allo specchio, non vide nulla di più che una ragazza impaurita. Tirò avanti il cappuccio cercando di nascondersi il viso, mentre qualche ciocca di capelli le scendeva appoggiandosi sul collo. Si fece forza ed entrò sul palco; il pianoforte la aspettava al centro della grande pedana con una luce radente sui tasti, e dei led che lo illuminavano dal pavimento. Aveva chiesto uno spot sul viso per evitare di guardare verso il pubblico; si accese appena. Si sedette al piano.
Il pubblico bloccò il brusio. Un applauso. Appoggiò le mani morbide quasi flaccide sui tasti. Scomparì tutto ciò che la circondava: ora finalmente era sola.
Iniziò con un solo tasto, un colpo delicato, quasi impercettibile; lo stesso tasto, ancora, lentamente. Ancora… sino ad aumentare l’intensità del suono. Continuò per quasi un minuto con la stessa nota. Ritmata. Cercava quella sicurezza sulla quale aggrapparsi, la certezza di ciò che si ripete. Finalmente, le mani iniziarono a suonare insieme, i battiti del cuore a rallentare, accennò un sorriso, anche se poco visibile sotto l’ombra del cappuccio: sembrava un accenno di luna.
Ora era libera, e poteva andare dove voleva.
Eppure, ogni volta non andava da nessuna parte, perché da quando il pianoforte era diventato la sua vita, ogni nota aveva una e una sola direzione, e la riportava da suo padre; Andrea.
Il brano avanzava incessante, e lei tornava bambina, sempre più piccola, a quando aveva tredici anni.
– Papà, come stai?
(La musica rallenta, diventa quasi sottovoce, le mani sembrano non appoggiarsi sui tasti)
– Amore mio, quanto mi sei mancata! – le risponde suo padre. Segue un colpo di tosse. Un altro.
– Pensavo fossi guarito. Mamma mi ha detto che stavi meglio.
– Sì, Sara, sto meglio, non ti devi preoccupare.
La voce arriva affannata, le parole escono lente.
– Ma cos’è successo, perché non posso venire a trovarti, ormai sono tantissimi giorni che sei lontano, – dice stringendo tra le dita il ciondolo che il papà le ha regalato per il suo compleanno. Una piccola àncora, ed un biglietto dove c’è scritto semplicemente ‘per ogni volta che ti perderai’.
– Sara, è difficile da spiegare, è un’influenza, – dice guardando l’infermiera che gli tiene il telefono vicino alla bocca. Poi, la voce rotta dopo un colpo di tosse riprende.
– Una forte influenza, ma sto bene.
L’infermiera non trattiene una minuscola lacrima.
– E tu amore mio, come stai invece?
– Sto bene, ma non ne posso più di stare a casa, voglio stare con te, manchi tanto a me e alla mamma.
Andrea intanto respira come se volesse mangiarsi l’aria, mentre l’infermiera allontana il cellulare per far si che sua figlia non senta quella fatica.
– Devi essere forte, cercare sempre di impegnarti in qualcosa, non lasciare che la noia prenda il sopravvento. Usa il tuo tempo come se fosse la cosa più preziosa che hai.
Arriva a gran fatica alle ultime parole, una serie di colpi di tosse.
– Sai che sto suonando molto il pianoforte, ti ricordi quell’App del telefono dove scegli la canzone e poi ti fa vedere come suonarla, una specie di gioco. Sto diventando bravissima, e sto imparando molte delle canzoni che piacciono anche a te.
Andrea recepisce tutto l’entusiasmo di sua figlia, accenna un sorriso che si riflette anche sul viso dell’infermiera.
– Ecco la musica, se ti emoziona, quella non lasciarla più, non lasciare nulla che ti faccia stare bene. E ogni volta che stai giù, ogni volta che ti manca suona. Pian piano, magari comporrai qualcosa di tuo.
– Sì, papà, ok, ma a me piace il Pop, – gli dice con un accenno di presunzione.
– Sara, non importa… qualsiasi cosa, ma falla bene, al meglio che puoi, la creatività ci salva.
Non fa in tempo a concludere la frase che subito sua figlia lo incalza, con una risposta che non si aspetta.
– E allora sii creativo, così ti salvi pure tu!
Quanta ingenua tenerezza in queste parole.
Le risponde con una bugia:
– Hai ragione sarò creativo anch’io.
A volte abbiamo bisogno di sentirci dire una bugia.
– Ma questa cosa, papà, come cavolo è arrivata. Tu l’hai capito?
È una domanda semplice, di una bambina di tredici anni, alla quale Andrea non sa rispondere: vorrebbe dirle la verità, ma la verità, in fondo, non la conosce neanche lui. Finirebbe solo con l’impaurirla, e lui non vuole gettarle addosso le sue paure, le ansie, le idee politiche, le insoddisfatte convinzioni.
Nel silenzio della risposta, Sara sente soltanto dei rumori lontani che non riesce a comprendere.
– Papà?
– Scusa amore, stavo solo pensando a quello che mi hai detto.
– E quindi?
– Ti dico questa cosa per risponderti. Cerca di capire quali sono le cose alle quali tieni di più, quelle che ti servono davvero, quelle che se non ci fossero ti farebbero stare male. Poi, pensa invece a tutte quelle cose che hai ma delle quali potresti fare a meno, quelle che trascuri da tanto, troppo tempo. Fallo con cura, perché io, la mamma, gli adulti, abbiamo dimenticato quelle piccole cose che ci hanno reso felici alla tua età, abbiamo dimenticato quanto la qualità della nostra vita sia legata alla natura, agli altri, e non soltanto al lavoro, ai soldi, al successo. Sempre a correre appresso a qualcosa, abbiamo dimenticato l’importanza della lentezza. Che grande sbaglio che abbiamo fatto.
Andrea fa uno sforzo immenso per non far notare a sua figlia la sua reale condizione, la totale assenza d’aria che lo sta raggiungendo.
Sara rimane in silenzio, un silenzio lungo.
Andrea raccoglie tutta l’aria che ha nei polmoni, si sente schiacciare, annegare.
– Ehi?
– Dimmi pa’…
– Va beh, mica ci devi pensare subito, magari domani… ora voglio parlare con…
Un dolore fortissimo al petto gli toglie il fiato, stringe il braccio dell’infermiera che regge il cellulare fino a farglielo cadere.
Sara sente solo un gran rumore, poi dei fortissimi colpi di tosse, dei lamenti. Sente lontana la voce di una donna dire:
– No, non adesso, nooo, ce la può fare, respiri…
Sara inizia a tremare, poi a piangere.
– Papà, papà, rispondi!
Se ne stava in piedi con le ginocchia piegate, tesa nel corpo, solo le dita sembravano volare nell’aria, come ali di colibrì percuotevano i tasti, mentre quella voce dentro continuava:
“Papà, papà, rispondi!”, ma nessuno poteva risponderle più, da molti troppi anni ormai.
Suonò ancora per circa un’ora, ed ogni brano era pieno di tutte le parole che non sapeva dire, di tutte le parole che le erano mancate. Fu l’ennesimo successo, l’ennesimo successo che non aveva mai cercato.
Forse era proprio questo che le voleva dire suo padre: le cose accadono, se fai ciò che ami, con passione, con devozione, qualsiasi risultato sarà un successo.
Non aveva mai inseguito un pubblico, non voleva nient’altro che essere ascoltata, nonostante la sua apparente solitudine, nonostante quell’aria di chi basta a sé stessa, la verità era più semplice. Nessuno si salva da solo.
Salutò, com’era solita fare, accennando un inchino, le mani in tasca nel giacchetto e via dietro ai camerini, mentre la gente continuava ad applaudirla.
Quella sera, però ebbe un tentennamento. Poco prima di uscire dietro il palco, si voltò di nuovo, guardò in platea dove lo spot che prima le puntava il viso era spento.
– Brava, ora hai capito.
– Lo so, grazie Papà.