Un pensiero e una grande bugia.

La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere…

Léopold Sédar Senghor

Finalmente la notte.
Sono abitudinario, ascolto Keith Jarrett Köln Concert, uno dei più grandi capolavori dell’improvvisazione musicale, uno dei più grandi esempi creativi che abbia mai ascoltato nella musica contemporanea. Mi arriva addosso come un vento caldo per poi penetrarmi dentro da ogni orifizio e pizzicarmi ogni singolo organo. Lo vedo lì, contorto, che pensa, che insegue quella melodia che ha in testa, un filo di lana sospeso e teso al di sopra di una candela accesa. Se aumenta il vento quel filo si rompe, deve restare lì, non allentare la presa con le dita che ne tengono i capi, anche se le braccia sembrassero staccarsi deve restare immobile, e tu che guardi, che ascolti, non devi respirare perché quel tuo gracile vento potrebbe erompere tutto.
Va avanti, chiuso in se stesso, senti la voce che ogni tanto usa per cantarsi la melodia e trovi qualcosa di così intimo da sentirti un privilegiato. Tu sei lì e stai ascoltando un segreto così grande. Certo, un segreto, perché un artista sincero si spoglia, ti racconta un segreto a modo suo, ti racconta non un momento ma la vita sino a quel momento, e può farlo solo se ha qualcosa da dire veramente. In questo concerto si sente tutta quella vita, tutta quella sincerità messa a nudo.
Questa è l’arte che amo. Non mi importa se c’è qualcuno tecnicamente più bravo, non mi importa se vende o non vende se va di moda o meno, mi importa che abbia qualcosa di nuovo da dirmi, qualcosa che possa darmi stimolo a raccontare la mia sincerità, perché l’artista non mostra la sua bellezza ma la bellezza dell’arte.
 E’ quello che, personalmente, inseguo io, quello che cerco di raccontare, non la mia possibile bellezza ma la bellezza dell’arte che amo sperando che questa possa essere da stimolo per qualcun altro e lo faccio attraverso le parole, il mezzo che meglio credo di saper usare. Anche se sono diverse le forme con le quali cerco di comunicare è sempre la parola al centro della mia attenzione, la parola che si appoggia ad altre forme espressive ma che è il vero motivo di tutto.
La parola non è lontana da una nota, puoi usarla in infinite maniere, componi, arrangi, puoi usare parole semplici per raccontare qualcosa di complesso e profondo, è la vita che hai messo dentro a quelle parole, a quelle note, a fare la differenza. E’ il ritmo che dai, i respiri, è la tecnica, la pratica, la voglia di azzardare e quel non accontentarsi mai. Può accadere che quelle parole però nella ricerca ossessiva, nella sperimentazione, ad un certo punto, inizino a ripetersi, a sgonfiarsi come gomme bucate e cadono giù subito dopo esser nate.
Scrivi e ti sembra di vivere di rendita, ma non vibri più.
Mi è accaduto proprio questo un po’ di tempo fa, un mese o forse più, a chi interessa?
Mi interessa invece di accorgermi di aver avuto la forza di smettere, di allontanarmi totalmente da tutto e non toccare più una tastiera, una penna, una buona musica, un buon film. Anche le immagini che sono state sempre una grande fonte di ispirazione improvvisamente sono diventate insipide. Vuoi perché ho esagerato, vuoi perché la realtà di questa vita ci si sta stringendo sempre addosso, vuoi perché ho fatto un gran casino in questa mia insistenza e ad un certo punto tutti i piccoli buchi che ti lasci dietro le spalle sembrano crateri incolmabili che vorresti rimarginare ma non sai più come fare. Metto sempre me come primo colpevole dei miei sbagli, non mi sono mai detto che la colpa fosse di qualcun altro. Io sono le mie colpe, scelte consapevoli piene di errori, aver pensato che ce l’avrei fatta comunque, essermi fidato di persone sbagliate.

La grande bugia.

Ci metto sopra anche un’altra questione però, tutto quello che stavo leggendo in rete, su facebook, gli atteggiamenti delle persone, questo modo gratuito di demolire sempre tutto, di emergere, di offendersi, di essere critici sempre su tutto. Un caos generale nel quale tu cerchi di gridare soltanto la tua voglia di emozionare, dove cerchi dei dialoghi, delle riflessioni e invece trovi tutti, troppi, incazzati con il mondo, che sputano contro ogni cosa seduti dietro ad un pc. Ma questo non mi turba nemmeno più di tanto, è la rete, è la comunicazione dei social network, funziona così, sono il primo a viverla.
Quello che mi ferisce profondamente è invece una questione di cui poco si parla, è QUELLA GRANDE BUGIA, che ci stiamo raccontando, le cazzate che ogni giorno proponiamo sulle nostre bacheche. Sono quelle urla di rabbia per concludere tutto sempre con qualcosa che dovrebbe far ridere. Noi contestiamo Berlusconi e tutti gli altri però, poi, stiamo tutto il giorno a condividere stronzate. Tutte quelle questioni che ci scuotono, che stanno rendendo la nostra esistenza una vera lotta alla sopravvivenza, le stiamo facendo diventare cazzate. Ridere fa bene, ridere è una gran cosa, la penso anche io così ma cazzo, ci hanno dato un mezzo per poter cambiare il mondo e noi stiamo tutto il giorno a pubblicarci le foto di Berlusconi che ci restituisce questo e quello, e quant’altro. Siamo dei fottutissimi bugiardi perché se così non fosse, se tutti dicessimo la verità, oggi saremmo nei campi, vivremmo nei paesi piuttosto che nelle città, non andremmo in giro con macchine lussuose, non cambieremmo un telefono ogni sei mesi, non compreremmo macchine a benzina, non servirebbe una flotta che spazza le strade a togliere tutta la nostra immondizia superflua, si riciclerebbe, non ci sarebbe il clientelismo, saremmo in meritocrazia, ci uniremmo in comunità che condividono, che scambiano, che partecipano.
Una grande, immensa bugia, che si racconta ogni giorno per il solo gusto di passare il tempo, per crederci migliori, per pulirci la coscienza.
Ogni popolo ha i governanti che si merita, ha le leggi che si merita, è la massa che sostiene tutto questo perché se così non fosse , se non fosse stata la massa, quindi, la stragrande maggioranza delle persone, non saremmo a questo punto. Se non fossimo bugiardi, l’editoria non sarebbe in crisi, la cultura tutta non sarebbe in crisi, il popolo non sarebbe in crisi. Guardate la home, la massa sta tutta lì, racconta più quella parte di monitor oggi che tutto il resto. Tutti leggono, tutti studiano, tutti partecipano ad eventi, tutti ascoltano musica di grande qualità, grandi masse di persone perfette che ti veine da domandarti almeno una volta: ma allora perché tutto va così male, perché?

Possibile che tutto vada male per quei pochi, in rapporto alla massa?

No, non è proprio possibile, c’è una grande bugia che ci stiamo raccontando ogni giorno, e che ci sta distruggendo.

Comunque, io la mia personale soluzione me la sono trovata in questa pausa, svuotandomi il più possibile, sino ad oggi che sento forte il desiderio di ripartire, di rimettermi in gioco, di continuare con la stessa coerenza il mio percorso, nelle mie convinzioni, nella mia piccola lotta contro la solitudine sociale, sono lontano però adesso ho delle nuove cose da dire, delle poesie nuove da scrivere, delle idee nuove da realizzare. E voglio fare un altro uso, diverso dal passato anche di questa pagina sociale, me ne frego se sui social bisogna essere sintetici, io voglio comunicare quello che sento, voglio dibattere, confrontarmi, e se oggi la gente comunica in rete lo farò in rete, certo sarebbe bello incontrarsi, e quant’altro, ma non mi pare che in giro ci sia tutta questa gente e tutta questa reale voglia di condivisione, mi sembra che ci sia molto il salviamoci il culo, guarda come sono bravo, ed io, se una sola cosa posso dire di aver fatto nella mia vita è quella di aver sempre vissuto l’arte come una grande forma di socializzazione, di stimolo, di condivisione e mai per successi personali. Non ambisco ad alcun premio, né ad alcun complimento, ambisco a sentirmi vivo, a non sprecare questa mia esistenza, vada come vada io mi racconto ed esco da questa grande bugia. Spero che nessuno si senta personalmente attaccato anche se poi non me ne frega nulla, la mia è solo un analisi nella quale mi inserisco io per primo.

Buona vita, a poi.  

Alessandro 

#costumeesocietà #socialnetwork #solitudinesociale #disorsionivisive #alessandrovettori #lagrandebugia

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Gericault – La zattera della Medusa – 

06 – Strategia della disperazione.

Da qualche anno ormai la rete è invasa da strategie, le più disparate, quella del terrore, quella dell’attenzione, quella della disattenzione, quella della tensione e chi più ne ha più ne metta. In questa Baraonda non potevo che inserirmi anch’io con la mia strategia della disperazione.
Iniziamo:

La disperazione, se prendete la Treccani ciò è quanto vi riporterà su questa parola:

1. Stato d’animo di chi non ha più alcuna speranza ed è perciò oppresso da inconsolabile sconforto e da grave abbattimento morale: condurreridursiessere ridotto alla d. (anche per gravi difficoltà finanziarie); essere in preda alla d.; esser presoassalito dalla d.; per d., non trovando altra soluzione, costretto da dura necessità: stanco di lottare contro la miserias’è dato per dalla malavitail coraggio della d., il coraggio di chi, non avendo altra via d’uscita, osa tutto per tutto. 
Ecco, in queste prime sei righe c’è proprio ciò che stavo cercando: Il coraggio della disperazione, il coraggio di chi, non avendo altra via d’uscita, osa tutto per tutto E’ una questione di scelta, di sostantivi. La disperazione solitamente guardata come uno stato negativo può, invece, essere l’evento promotore del coraggio, quella folle spinta, disperata, che ci fa sollevare sulla braccia per uscire dal pozzo in cui siamo caduti. Possiamo restare lì a tremare convinti che le nostre braccia non riusciranno mai a sollevare il peso del nostro corpo, o tentare l’impossibile, facendo forza soltanto sulle dita, sentendo le unghie che si spezzano, sentendo il cuore che ci pulsa sul collo, sentendo le braccia che si strappano, ma questa è l’unica strada per la salvezza. La salvezza non spetta ai rassegnati, nemmeno ai benpensanti, la salvezza spetta ai folli e ai disperati. E la scelta da cosa e da chi dipende?
La scelta dipende esclusivamente da noi, e la facciamo in base alla nostra cultura alla nostra fame d’informazione. La nostra cultura, crea possibilità, più è stata curata più ci rende predisposti alle soluzioni, la cultura è una chance.
Alimentiamo la nostra cultura, sarà la possibilità di trasformare la disperazione in coraggio della disperazione ed uscire, anche se a fatica, da un pozzo che credevamo insormontabile.

Buona vita

A poi.

01 – Il dolore ai tempi di Facebook (una semplice riflessione)

Parto oggi con il mio nuovo Blog, che spero pian piano possa diventare, semplicemente, luogo di spunti per discussioni. Tratterò argomenti del quotidiano, sociali, in maniera sociale, senza presunzione, senza insegnare niente a nessuno. Parto con una semplice riflessione che mi gira in testa da parecchio tempo. Buona lettura
A poi. 

” Il dolore ai tempi di Facebook”
Mamma Roma corre, lascia il suo carretto e corre, sulla strada, da sola, inseguita da chi la conosce, da chi vorrebbe condividere il suo dolore o soltanto guardare quel dolore. Mamma Roma corre e non vorrebbe nessuno accanto, perché il dolore è cosa intima, è cosa personale che ognuno vorrebbe sbrigare da sé. Invece, c’è sempre qualcuno pronto a credere di poter dar sostegno al dolore, di poterlo affievolire, qualcuno che ha parole buone da dare, abbracci da dispensare. Il dolore per la perdita di una persona cara si consuma negli occhi, nello stomaco, nelle mani, nelle gambe; il dolore fa tremare.
Senti un vociare che è simile a uno sciame di mosche impazzite che ti ronza intorno alla testa, amici, parenti, conoscenti, tutti che devono dire qualcosa, che devono sapere, che hanno una soluzione, dimenticando la soggettività del dolore. Una volta si usava mandare un telegramma, lo si fa ancora oggi, ma questo mezzo sta pian piano sparendo. Oggi per esprimere la propria vicinanza al dolore, per raccontare il proprio stato di vicinanza con chi non c’è più, si usa Facebook. Quel pensiero che arrivava diretto attraverso una lettera, che era destinato ai soli famigliari, oggi diventa invece un fattore condiviso con chiunque, con tutti i propri contatti. Solitamente questo messaggio, quest’espressione di solidarietà viene raccolta da chiunque meno che dai famigliari, che tutto hanno da pensare in quei giorni meno che leggere gli stati di facebook. Ma arriverà qualcuno ad informarli che il loro, figlio/a marito, sorella che sia ha avuto tanti messaggi e tanti mi piace, che tutti gli volevano bene, non sia mai che oggi te ne puoi morire come uno qualunque, senza tanti luoghi comuni, senza che lo sappiano tutti. Oggi il dolore per una mancanza è un fatto collettivo che va ben oltre il dolore famigliare, è una questione sociale, sociale della rete. Ha iniziato la televisione, con i suoi giornalisti a violare il dolore come atto spettacolare, ponendo domande quali: Cosa si prova, com’era?
Domande inquietanti, fuori luogo e soprattutto inutili. Cosa volete che si provi davanti ad un dolore?
Ci si insinua nel privato, nell’intimità, per far sapere al mondo, agli altri. Si viola il diritto alla sofferenza, all’elaborazione del dolore.
Vi chiedo un favore, quando morirò non dite di me che ero una grande persona, che illuminavo il mondo, che il mio sorriso accendeva le vostre giornate, non ricercatemi nei vostri ricordi giovanili, di quando facevamo l’asilo. Se non vi ho più frequentato, se non abbiamo più incrociato le nostre strade probabilmente non ho provato per voi nessun amore. Lasciate me, la mia famiglia, coloro che mi sono stati accanto davvero, a rapportarsi con il dolore, lasciate che lo superino nel modo che ritengono più opportuno. E se la mia compagna cercherà di vivere, di divertirsi, di dimenticare, non state a parlar male. Il mio percorso con lei sarà finito e non sarà certo nel dolore eterno che la vorrei lasciare. Ci si lamenta tanto di questa grande crisi economica, quando la vera crisi l’abbiamo anzitutto costruita socialmente, giorno dopo giorno, bugia dopo bugia e tutto, soltanto per passare il tempo, per mostrare il lato commerciabile di noi.
Il dolore ha bisogno del suo tempo, dei suoi spazi, non di certo di spazi collettivi.
Il dolore è una questione privata.