Mi viene da chiedermi stanotte più d’ogni notte, ma veramente, come molti affermano, siamo in guerra?
Guerra, e chi l’ha vissuta?Me l’ha raccontata qualcuno, l’ho letta sui libri, l’ho vista in tv, sempre distante, sempre da spettatore. Ho provato spesso ad immedesimarmi, a sentirne i frastuoni, a provare ad immaginare la polvere nella gola, la paura quando suonavano le sirene.
Ho pensato spesso a mia nonna che ha perso una figlia, l’ha soffocata con il corpo per difenderla dalle macerie di un bombardamento. E quella di mia nonna è una storia come ce sono state tante, troppe. Probabilmente non si è mai ripresa veramente, una di quelle donne forti di quegli anni, robusta, silenziosa, almeno così me la ricordo io. Una cosa ho impressa, la bontà di quegli occhi, come se avesse visto il dolore così in fondo da averlo trasformato in serenità. Ed io piccolo e pieno di capricci, gli sarò sembrato un stupido, che da buon viziato pensava che tutto fosse naturale e dovuto.
Pensare che a viziarmi , probabilmente era stata sua figlia, mia madre, che era diventata insegnate nel frattempo, anzi una supplente come si chiamavano allora. Sì, s’era sposata a soli 23anni, probabilmente piena di sogni, o forse no.
Forse, il sogno più grande era la famiglia, avere un figlio, ed io che arrivo un anno dopo. Ovviamente aveva un padre, lavorava nei campi, le famose vigne che in quegli anni erano la vera risorsa di piccole realtà contadine, quando le giornate le scandiva il sole e non gli orologi, quando le mogli andavano con un canestro a portare il pranzo e d’estate si portavano appresso i figli.
Mi raccontavano che a volte si fermavano tutti a lavorare, era la famiglia italiana degli anni 60.
Del lavoro di mio nonno non ricordo nulla, ma ricordo la sua cantina, il suo tinello dove restavano solo gli attrezzi di un passato che mi poteva solo raccontare.
Dice che faceva un buon vino, che aveva una sorta di fraschetta, e la gente si incontrava, beveva, un pezzo di pane, qualche salume, e sempre la luce che scandiva il tempo.
Mia madre è cresciuta così, in questa semplice Italia del dopoguerra, che gli ha permesso di studiare, di sposarsi e di farsi una famiglia tutta sua.
Mio padre cresceva invece in una storia un po’ diversa, figlio di un uomo troppo più grande di lui, cresceva e quell’uomo era già vecchio. Nato a San Paolo du Brazil, mio nonno, figlio di migranti, aveva lavorato nei campi di caffè, poi tornato in Italia si era fatto una famiglia, e parecchi figli. In Italia a quel tempo si moriva di poliomelite, e i figli sono rimasti due.
Trovò lavoro all’Enel, che era azienda dello stato, controllava la centrale elettrica del paese dove ancora oggi viviamo, un operaio.
Con quei soldi costruì una casa, ci abito ancora oggi.
Mio padre seguì la stessa strada, aveva studiato da geometra, ma poi il posto statale, probabilmente fu più interessante, e così iniziò anche lui a fare l’operaio. Intanto io crescevo, con mio padre operaio e mia madre che non voleva lavorasse, perché tanto i soldi bastavano, e lei poteva dedicarsi a me.
Credo che in fondo ci fosse anche gelosia in quelle scelte, ma mia madre che avrebbe dovuto fare?
Aveva la famiglia, aveva me, si stava bene, aveva una mini.
E tutto lentamente stava andando avanti, senza che m’accorgessi mai di cosa fosse l’infelicità.
Li vedevo felici, non mi mancava nulla, ma poi cresci, inizi a perdere le persone, quelle importanti. Quelle colonne che sono ripartite dopo la guerra, lentamente, con sacrificio e dedizione. Ma c’era da fare, c’era tanto da fare finché c’era la luce.
Intanto mia madre cresceva, diventava sempre più donna e intanto il mondo cambiava. Potevi avere di più, tornò a studiare, concorsi, concorsi, sino ad arrivare alle supplenze.
La donna stava prendendo un ruolo importante nella società e forse anche la famiglia stava cambiando ed io che continuavo a non accorgermi di niente.
Poi mio padre ebbe l’occasione di passare da operaio ad impiegato, l’Enel era sempre statale, l’ufficio aveva probabilmente il suo fascino allora. Economicamente non cambiava molto ma poter posare il cicalino, una sorta di cellulare che suonava quando eri reperibile se c’era qualche guasto la notte, durante qualche forte temporale, era qualcosa che doveva farlo ben sperare. Smise di intervenire, probabilmente iniziò a dormire più sereno da allora.
Mia madre intanto passò di ruolo, e io?
E io godevo di tutto questo benessere italiano, senza che mi mancasse nulla, mi addentravo nel progresso senza percepirne il sacrificio né il valore. Arrivarono i primi computer, due bastoncini bianchi con un quadratino simulavano una partita a tennis. Sembrava impossibile, eppure era il gioco più bello del mondo. In quel preciso momento dove tutto era possibile, il mondo prese un assurda velocità.
Di lì a poco uscirono i primi cellulari, costavano milioni, un Nokia enorme con l’antenna che si allungava dieci centimetri, più di un milione e mezzo di lire.
Però si poteva comprare, non serviva a niente allora, ma si poteva comprare. Mi ricordo al bar lo appoggiavi sopra al tavolo da biliardo, lo dovevano vedere tutti che avevi un telefono, era pieno di quei telefoni, perché la gente lavorava, stava bene. E’ stato un attimo svegliarsi un giorno e ritrovarsi che quel benessere prese tutta un’altra strada, ci trovammo improvvisamente dentro un cambiamento epocale, l’Europa, la moneta unica europea, bastava andare in banca gli davi le lire ti davano gli euro, che poteva cambiare?
E invece cambiò tutto, in pochissimo tempo i soldi rimasero quelli ma la roba costava il doppio.
In un attimo le 900 lire di un caffé divennero 80 centesimi. Però, a quel benessere ormai c’eravamo abituati, non ci sapevi rinunciare, la vita era la stessa ma i soldi andavano via.
Poco male, c’era chi te li dava, poi con calma glieli restituivi. Facile no?
Peccato che questa facilità c’è sfuggita di mano e il tempo che non era più scandito dalla luce non bastava più, era diventato un cane rabbioso che ti inseguiva affamato.
Come siamo passati dalla bellezza del tempo che passa, a il tempo che diventa il più grande dei problemi, non lo so, ma iniziavo a capire.
Da qui in poi la storia e quella di tutti, quella che ci ha reso sempre più soli, più nervosi, più delusi.
I nostri nonni, i nostri genitori, avevano superato la guerra, costruito il lavoro, dato forza alle famiglie e pian piano reso grande l’Italia. Avevano superato epidemie molto più grandi della nostra, eppure, si erano sempre saputi ricostruire, perché la vita era più lenta, perché quando tutto crollava come durante la guerra c’era la voglia di ripartire e si dava gas alla vita, tutti in giro, tutti in movimento, una grande corsa mano nella mano per risollevare L’Italia e gli italiani.
Oggi un Virus, dopo questa impennata evolutiva degli ultimi vent’anni, ci mette in ginocchio e ci riempie di paura, senza essere nemmeno lontanamente vicino a quello che i nostri nonni e i nostri genitori hanno vissuto. È tremendo, è perfido questo virus, ma noi non lo abbiamo affrontato, lo stiamo cercando di evitare, di fermare con l’isolamento. È come se in guerra mentre il nemico attacca tu ti nascondi in una grotta sperduta sperando che nessuno ti trovi per uscire quando tutto è finito e gridare: vittoria! Ma se per caso quel nemico fosse sfuggito alla cattura e te lo trovassi davanti potresti essere tu a morire.
Nascondersi a volte fa bene, speriamo che questa sia una di quelle volte.
Perché tutta questa storia?
Perché sento ogni giorno paragonare questo Virus alla guerra, all’ebola ad altre epidemie che hanno affondato il mondo, e sento dire, forza ricostruiamolo questo mondo, dobbiamo solo capire come le cose cambieranno, come sarà il futuro d’ora in poi.
Dimentichiamo un fatto che secondo me è fondamentale, dopo la guerra, dopo l’ebola l’Italia non era quest’Italia, il mondo non era questo mondo, tutto andava lento, si risparmiava perché il superfluo era poco necessario. Noi no, per noi il superfluo è ciò che più c’è necessario e parliamo con New York in un nano secondo, acquistiamo dall’altra parte del mondo con un click e in due giorni possediamo il nostro desiderio, che desiderio non è più se il tempo è così breve.
Ci siamo globalizzati, non vedevamo l’ora di essere tutti parte di un mondo iper connesso, finché siamo caduti con un soffiettino d’aria leggera.
Il mondo si è fermato con un soffio d’aria leggera, dove la malattia e l’economia hanno la stessa importanza.
Abbiamo paura, certo che abbiamo paura, perché l’unica cosa di cui siamo coscienti è che per uscire da una grande crisi bisogna dare gas, tutto il gas che si ha, più quello che non si ha, rimboccarsi le maniche. Siamo dentro un concetto che non c’appartiene più, quello che: se mi impegno tutto è possibile, non funziona più, perché se ogni grande catastrofe prima azzerava i conti e ti chiedeva di spingere più che potevi oggi per ripartire ti dicono di andare piano, di distanziarti, di fare la fila, di saper aspettare, e allora ti serve una mano dallo stato – che poi saremmo noi -.
Allora, vi chiedo, ma una società evolutiva e iper connessa come la nostra che è abituata a desiderare, chiedere e in un attimo avere, che si è costruita sui debiti, sulle scadenze, sul lavorare per sopravvivere e non per vivere, può da sola affrontare la ripartenza che ci si prospetta?
Ci proveremo come sempre, personalmente cercando di non riavere la vita che avevo prima, non mi farò a pezzi per una normalità che è scomparsa davanti ad un virus, aggressivo è innegabile, ma non è una guerra, né l’ebola, né la poliomelite. Era la società che era diversa, in quelle giornate dove il tempo era scandito dalla luce c’era il futuro, o meglio, c’era il mondo futuribile.
Noi abbiamo preso in mano il tempo, gli abbiamo detto come fare, ma deve aver capito male.
Che modernità c’è in questa nostra debolezza?
Mio nonno era moderno che per andare a roma metteva un giorno ma era certo di arrivare, non noi che ci arriviamo in mezz’ora ma rischiamo sempre di non tornare.
Quello si che era il futuro, questa è soltanto un’illusione, ma è pur sempre la nostra meravigliosa illusione.