Parto oggi con il mio nuovo Blog, che spero pian piano possa diventare, semplicemente, luogo di spunti per discussioni. Tratterò argomenti del quotidiano, sociali, in maniera sociale, senza presunzione, senza insegnare niente a nessuno. Parto con una semplice riflessione che mi gira in testa da parecchio tempo. Buona lettura
A poi.
” Il dolore ai tempi di Facebook”
Mamma Roma corre, lascia il suo carretto e corre, sulla strada, da sola, inseguita da chi la conosce, da chi vorrebbe condividere il suo dolore o soltanto guardare quel dolore. Mamma Roma corre e non vorrebbe nessuno accanto, perché il dolore è cosa intima, è cosa personale che ognuno vorrebbe sbrigare da sé. Invece, c’è sempre qualcuno pronto a credere di poter dar sostegno al dolore, di poterlo affievolire, qualcuno che ha parole buone da dare, abbracci da dispensare. Il dolore per la perdita di una persona cara si consuma negli occhi, nello stomaco, nelle mani, nelle gambe; il dolore fa tremare.
Senti un vociare che è simile a uno sciame di mosche impazzite che ti ronza intorno alla testa, amici, parenti, conoscenti, tutti che devono dire qualcosa, che devono sapere, che hanno una soluzione, dimenticando la soggettività del dolore. Una volta si usava mandare un telegramma, lo si fa ancora oggi, ma questo mezzo sta pian piano sparendo. Oggi per esprimere la propria vicinanza al dolore, per raccontare il proprio stato di vicinanza con chi non c’è più, si usa Facebook. Quel pensiero che arrivava diretto attraverso una lettera, che era destinato ai soli famigliari, oggi diventa invece un fattore condiviso con chiunque, con tutti i propri contatti. Solitamente questo messaggio, quest’espressione di solidarietà viene raccolta da chiunque meno che dai famigliari, che tutto hanno da pensare in quei giorni meno che leggere gli stati di facebook. Ma arriverà qualcuno ad informarli che il loro, figlio/a marito, sorella che sia ha avuto tanti messaggi e tanti mi piace, che tutti gli volevano bene, non sia mai che oggi te ne puoi morire come uno qualunque, senza tanti luoghi comuni, senza che lo sappiano tutti. Oggi il dolore per una mancanza è un fatto collettivo che va ben oltre il dolore famigliare, è una questione sociale, sociale della rete. Ha iniziato la televisione, con i suoi giornalisti a violare il dolore come atto spettacolare, ponendo domande quali: Cosa si prova, com’era?
Domande inquietanti, fuori luogo e soprattutto inutili. Cosa volete che si provi davanti ad un dolore?
Ci si insinua nel privato, nell’intimità, per far sapere al mondo, agli altri. Si viola il diritto alla sofferenza, all’elaborazione del dolore.
Vi chiedo un favore, quando morirò non dite di me che ero una grande persona, che illuminavo il mondo, che il mio sorriso accendeva le vostre giornate, non ricercatemi nei vostri ricordi giovanili, di quando facevamo l’asilo. Se non vi ho più frequentato, se non abbiamo più incrociato le nostre strade probabilmente non ho provato per voi nessun amore. Lasciate me, la mia famiglia, coloro che mi sono stati accanto davvero, a rapportarsi con il dolore, lasciate che lo superino nel modo che ritengono più opportuno. E se la mia compagna cercherà di vivere, di divertirsi, di dimenticare, non state a parlar male. Il mio percorso con lei sarà finito e non sarà certo nel dolore eterno che la vorrei lasciare. Ci si lamenta tanto di questa grande crisi economica, quando la vera crisi l’abbiamo anzitutto costruita socialmente, giorno dopo giorno, bugia dopo bugia e tutto, soltanto per passare il tempo, per mostrare il lato commerciabile di noi.
Il dolore ha bisogno del suo tempo, dei suoi spazi, non di certo di spazi collettivi.
Il dolore è una questione privata.